Sclerosi multipla, si accende una speranza di cura
BOLOGNA. Serviranno ancora anni di ricerche, e gli esperti sottolineano che "non si possono e non si vogliono creare illusioni", ma una recente scoperta medica sembra aprire una strada alla speranza di combattere la sclerosi multipla, o almeno di avere un'arma in piu'. C'e' una malattia vascolare, si chiama Ccsvi (insufficienza venosa cerebro-spinale) , su cui si puo' intervenire con buoni risultati con un piccolo intervento chirurgico in day hospital, e ora le ricerche cercano di indagare i possibili legami tra questa malattia e la sclerosi multipla. La speranza e' che il miglioramento della funzione di drenaggio venoso cerebrale, cioe' il trattamento curativo della Ccsvi, possa contribuire a migliorare lo stato dei pazienti affetti da sclerosi. Ne hanno parlato oggi da Paolo Zamboni, medico e docente all'universita' di Ferrara che ha dato il via alle ricerche, e Fabrizio Salvi, medico dell'unita' di neurologia dell'Ospedale Bellaria di Bologna che ha
affianca to Zamboni nelle sue indagini a partire dal 2007.
Salvi conferma di aver riscontrato la presenza "di un'alterazione dello scarico venoso cerebro-spinale in tutti i pazienti affetti da scelorsi multipla seguiti dal Centro 'il Bene' del dipartimento di neuroscienze di Bologna e studiati dal gruppo di Ferrara di Zamboni". Ma si e' riscontrato anche un miglioramento, in coloro che sono stati sottoposti a interventi, sul fronte della sensazione di affaticamento, sul piano dei disturbi cognitivi e delle cefalee. La necessita' di verificare se la sovrapposizione tra Ccsvi e sclerosi multipla fosse una casualita' italiana o meno ha reso necessaria la collaborazione con altri istituti: cosi' e' entrato nel progetto di ricerca anche l'americano Jacobs institute of neurology.
L'anno scorso, per sviluppare questa ricerca, e promuovere servizi a favore di chi e' colpito da malattie degenerative del sistema nervoso, e' nata la Fondazione Hilarescere, presieduta da Fabio Roversi Monaco e sostenuta dalla Fondazione Cassa di risparmio di Bologna (Carisbo, di cui Roversi e' presidente), che per il biennio 2009-2010 ha stanziato 200 mila euro. "La diagnosi e la cura studiate per la Ccsvi sono risultate convincenti- dice Roversi Monaco motivando l'impegno della Fondazione- tanto da spingere otto americani malati di sclerosi multipla, nell'ambito dello studio con il Jacobs institute, a venire in Italia per farsi operare". E questo, per il presidente della Fondazione, e' "un riconoscimento oggettivo sul piano internazionale" .
Zamboni ha presentato le sue ricerche ad aprile, in occasione del 31^ incontro mondiale dei medici vascolari che si e' tenuto a Londra. Un prossimo passo nella ricerca si potrebbe fare a settembre. Per l'8 settembre la Fondazione Hilarescere sta organizzando un incontro internazionale sulla sclerosi multipla che si terra' a Bologna. E' in questa occasione, si augura Zamboni, che "si dovrebbero poter definire protocolli internazionali comuni, per raccogliere piu' velocemente dati e proseguire le ricerche".
I ricercatori della Stanford University
hanno seguito 32 donne affette da SM, confrontando l’andamento della malattia
tra chi ha allattato al seno e chi lo ha fatto con latte artificiale.
Esistono molte dimostrazioni dei benefici dell’allattamento materno per i neonati:
un nuovo studio dimostra che, in alcuni casi, ci sono benefici anche per la mamma.
Secondo i ricercatori della Stanford University della California, le donne affette da Sclerosi Multipla
che allattano al seno, hanno un minor rischio di ricadute della malattia.
La Sclerosi Multipla è una malattia autoimmune in cui il sistema
immunitario, per gravi alterazioni della sua funzione, attacca la mielina.
La guaina mielinica riveste e protegge i nervi consentendo la trasmissione
degli impulsi nervosi. Spesso, durante la gravidanza, la SM regredisce.
Secondo gli studiosi, la gravidanza ha una funzione protettiva verso la
SM poiché modifica alcuni meccanismi della risposta immunitaria per consentire
al feto – per cosi dire un “elemento estraneo” – di crescere nel grembo
materno. Ma dopo la nascita, la donna è di nuovo soggetta ad un elevato
rischio di progressione della malattia, con la ricomparsa di sintomi quali
astenia, perdita di sensibilità, disturbi alla vista e altro. Per questo
la maggior parte dei medici suggerisce alle neo-madri di riprendere immediatamente
l’assunzione dei farmaci, ma ciò significa non poter allattare, poiché
i medicinali vengono metabolizzati e vengono trasferiti nel latte, con
il rischio di arrecare danni al bambino.
I ricercatori hanno condotto l’indagine prendendo in esame 32
donne affette da SM: sono state messe a confronto le donne che hanno allattato
al seno con quelle che hanno usato l’allattamento artificiale, registrando
la velocità con cui manifestavano la prima ricaduta dopo il parto. Circa
metà del campione non ha allattato al seno o lo ha fatto solo parzialmente,
alternando il latte materno con quello artificiale. Tra le donne che
non hanno allattato al seno, l’87% ha avuto una ricaduta subito dopo la
gravidanza, contro il 36% registrato tra le donne che hanno allattato
continuativamente per almeno due mesi. Il monitoraggio è andato avanti
per i 12 mesi successivi alla gravidanza.
La ricercatrice Annette Langer-Gould, direttrice del team di
ricerca, alla luce dei dati registrati, ha commentato che la scelta peggiore
sembra essere stata quella di chi ha rinunciato all’allattamento per tornare
immediatamente ad assumere i farmaci, ma non è ancora possibile spiegare
perché allattare al seno aiuti a contrastare la progressione della Sclerosi
Multipla né fare ipotesi sulla durata di questo effetto protettivo.
I risultati dello studio – che necessitano di ulteriori approfondimenti
su ampie popolazioni di pazienti – saranno presentati ad aprile in occasione
del meeting annuale dell’American Academy of Neurology e certamente accenderanno
il dibattito tra i sostenitori dell’allattamento al seno e coloro i quali,
invece, caldeggiano la tempestiva ripresa dei trattamenti farmacologici.
Fonte: Report On Business 20/02/09
News
23 Marzo 2009
Alcuni ricercatori dell'Istituto
per la Ricerca in Biomedicina (IRB) di Bellinzona (Svizzera), in collaborazione
con i ricercatori dell’istituto Theodore Kocher di Berna (Svizzera) e
dell'Unità di Neuroimmunologia dell'Università di Genova hanno identificato
un meccanismo chiave implicato nella patogenesi dell’ encefalomielite
autoimmune sperimentale (EAE). L’EAE è un modello sperimentale della Sclerosi
Multipla (SM) una grave malattia neurologica associata a progressiva disabilità
causata da un danno della mielina, la guaina che permette la conduzione
nervosa lungo i nervi. Pertanto la possibilità di bloccare i meccanismi
coinvolti nella patogenesi EAE potrebbe avere ripercussioni anche sulla
SM. L’EAE e la SM sono malattie autoimmuni. Nella SM, i linfociti T, globuli
bianchi del sistema immunitario che normalmente ci difendono dai microrganismi,
attaccano strutture del sistema nervoso centrale danneggiando la mielina
ed i neuroni dello stesso organismo (attacco autoimmune). Perchè questo
attacco avvenga i linfociti T devono attraversare la barriera ematoencefalica,
una barriera che separa il sistema nervoso centrale dal sangue. Lo studio,
coordinato dalla dott.ssa Federica Sallusto dell’IRB (Bellinzona), che
e’ stato pubblicato online il 22 Marzo nella rivista Nature Immunology
(a cui ha collaborato anche Andrea Reboldi dell’IRB), ha identificato una
molecola, chiamata CCR6, espressa sulla superficie dei linfociti T autoaggressivi,
la cui presenza e’ necessaria affinchè abbia inizio il processo autoimmunitario
all’interno del sistema nervoso centrale. La Dott.ssa Sallusto spiega
che il CCR6 permette l’ingresso dei linfociti T all’interno del sistema
nervoso centrale agendo come una chiave per aprire la serratura espressa
unicamente su cellule di un particolare organo cerebrale, il plesso coriodeo,
una struttura specializzata nella produzione del liquido cerebrospinale
(“liquor”). In questo modo, i linfociti T auto aggressivi, che esprimono
CCR6, entrano attraverso il liquor nel sistema nervoso centrale e funzionano
come un grimaldello aprendo la porta ad altre cellule del sistema immunitario
coinvolte nella patogenesi della SM. In assenza di queste cellule “grimaldello”,
l’EAE non si sviluppa. Britta Engelhardt del Theodor Kocher Institute
di Berna spiega che non era mai stato dimostrato che il processo infiammatorio
nel SNC iniziasse nel plesso corioideo ma che questo meccanismo è compatibile
con la localizzazione periventricolare delle lesioni della EAE e della
SM. Antonio Uccelli dell’Università degli Studi di Genova, afferma che
i linfociti T che esprimono CCR6 possono essere identificati anche nel
cervello e nel liquor di persone con SM suggerendo che il ruolo di questa
molecola nell’innescare l’attacco autoimmunitario nel SNC è probabilmente
importante anche per la patogenesi della SM. Lo studio è stato finanziato
dalla Fondazione Nazionale Svizzera delle Scienze, dalla Commissione europea
Sesto programma quadro, dalla Associazione Americana per la Sclerosi Multipla,
dalla Associazione svizzere per la SM e dalla Fondazione Italiana Sclerosi
Multipla. Secondo il Prof. Antonio Lanzavecchia, Direttore dell’Istituto
per la Ricerca Biomedica di Bellinzona e coautore del lavoro, questa molecola
potrebbe rappresentare un nuovo bersaglio per lo sviluppo di nuove terapie
per la Sclerosi Multipla
Tradimento nella barriera
ematoencefalica
Nella Sclerosi Multipla il sistema immunitario aggredisce le strutture
del cervello come se fossero estranee all’organismo causando in
tal modo gravi danni .Di recente il nostro gruppo di ricerca è
riuscito ad identificare nella barriera ematoencefalica delle
«cellule traditrici», finora sconosciute, la cui funzione è quella
di indicare al sistema immunitario il bersaglio da colpire nel
cervello. Dal nostro punto di vista non ci sono dubbi: solo quando
conosceremo con esattezza i meccanismi di fondo che danno origine
alla SM, potremo mettere a punto soluzioni terapeutiche intelligenti
e specifiche. Solitamente il sistema immunitario è il «poliziotto
buono». Esso protegge l’organismo dagli invasori,elimina i corpi
estranei, combatte i microbi e impedisce ai virus di replicarsi.
In alcuni casi, anche se raramente, qualcosa non funziona a dovere,
e le cellule immunitarie diventano degli aggressori che attaccano
e danneggiano le strutture del proprio organismo. Questo è quanto
sembra avvenire nella SM. Allo stato attuale si ipotizza che l’origine
della SM sia da ricercarsi in un’alterazione del sistema immunitario.
Per cause tuttora sconosciute il sistema immunitario identifica
come estranee determinate strutture del cervello e le attacca
per eliminarle. Particolarmente colpita dall’attacco del sistema
immunitario è la guaina che isola le fibre nervose, la cosiddetta
mielina. Le conseguenze della distruzione della mielina sono delle
infiammazioni in aree del cervello e del midollo spinale che a
loro volta generano notevoli disturbi. Le ipotesi formulate per
spiegare questa aberrazione del sistema immunitario sono tante.
Quella più frequentemente sostenuta è che dei microbi (probabilmente
dei virus) confondano il sistema immunitario portando ad una perdita
di tolleranza nei confronti delle strutture del cervello. I colpevoli
dell’aggressione, ovvero le cellule immunitarie che innescano
il processo di attacco al cervello, sono un tipo particolare di
globuli bianchi (linfociti T helper). Tali cellule autoreattive
sono presenti in ognuno di noi, ad esempio nel sangue, indipendentemente
dal fatto che si sia affetti o meno da SM. A differenza di quanto
accade in chi è affetto da Sclerosi Multipla,nelle persone sane
queste cellule non vanno ad aggredire le strutture del cervello.
Comunque, una volta attivati i Linfociti T si servono di cellule
traditrici che indicano loro la vittima da colpire nel cervello
e nel midollo spinale. Per agire i linfociti T necessitano infatti
di cellule traditrici professioniste che mostrino loro le strutture
bersaglio. Senza le cellule traditrici i linfociti T sono cecchini
ciechi Questo principio base vale per il sistema immunitario di
tutti i mammiferi (di cui fanno parte anche gli esseri umani)
sia per la risposta autoimmunitaria sia per l’induzione della
risposta immunitaria contro sostanze estranee e microbi. Le cellule
traditrici responsabili di dare avvio alla risposta immunitaria
che scatena la SM sono delle «cellule presentanti l’antigene».
Il nostro gruppo di ricerca, come molti altri gruppi di ricerca
internazionali, ha tentato di individuare tali cellule nel cervello
– lì dove da più di 20 anni i ricercatori della SM sospettavano
che fossero. Negli esperimenti in vitro era stato possibile dimostrare
che determinate cellule del cervello (cellule gliali e specificatamente
le microglia) potevano essere indotte a comportarsi come cellule
traditrici. Il nostro tentativo di ottenere questo stesso risultato
negli animali si è rivelato senza successo: nel loro tessuto cerebrale
non siamo riusciti a trovare alcuna cellula traditrice. Alla fine
abbiamo rivolto la nostra attenzione alle «cellule dendritiche », che sono anch’esse delle cellule presentanti l’antigene ma
in genere presenti in altri tessuti come la cute o i linfonodi.
In realtà queste cellule, anche se in numero ridotto, erano già
state localizzate nella barriera ematoencefalica – ma questa scoperta
risalente all’anno 2000 era stata messa in dubbio da molti scienziati
(tra cui anche noi) poiché si era sempre sostenuto che nel cervello
non ci fossero cellule dendritiche. Adesso siamo riusciti a dimostrare
che le cellule dendritiche si trovano effettivamente anche nella
zona di confine che separa il sangue dal cervello e che sono proprio
esse ad indicare il bersaglio ai linfociti T helper. Al contempo
abbiamo così confutato la teoria diffusa tra i ricercatori della
SM per la quale sono le cellule gliali a fare da cellule traditrici.
La ricerca pubblicata sulla rivista «Nature Medicine» dimostra
che le cellule dendritiche sono direttamente correlate all’insorgenza
della malattia. Più precisamente: siamo riusciti a dimostrare che senza questo tipo di cellule la malattia non si scatena.
Sclerosi multipla: accuratezza diagnostica delle anomalie della retina nella predizione dell’attività di malattia
Ricercatori dell’University of Navarra, a Pamplona, in Spagna, hanno valutato l’esistenza di un’associazione tra lo spessore dello strato delle fibre nervose della retina (RNFL), misurato grazie a tomografia ottica a radiazione coerente (OCT), periflebite retinica e l’attività di malattia della Sclerosi Multipla.
Lo studio prospettico, della durata di 2 anni, ha riguardato una coorte di 61 pazienti e 29 controlli.
I partecipanti sono stati sottoposti a valutazione neurologica ogni 3 mesi e ad esame oftalmologico, inclusa OTC, ogni 6 mesi.
Sono stati effettuati anche studi basali di MRI (risonanza magnetica per immagini) dai quali sono stati ricavati dati circa il volume cerebrale ed il carico di lesioni.
E’ risultato che lo spessore RNFL nei pazienti con Sclerosi Multipla era inferiore rispetto ai controlli, in particolare nel quadrante temporale (p = 0.004).
Sebbene l’atrofia delle fibre nervose della retina fosse maggiore nei pazienti che mostravano anche neurite ottica (p = 0.002), è risultata anche aumentata nei pazienti con Sclerosi Multipla non affetti da neurite ottica, rispetto ai controlli (p = 0.014). L’atrofia delle fibre nervose della retina è risultata correlata ad una maggiore disabilità (r = -0.348, p = 0.001) e ad una maggiore durata temporale della malattia (r = -0.301, p = 0.003). Inoltre, l’atrofia RNFL al quadrante temporale, al basale, è risultata associata alla presenza di nuove recidive e a cambiamenti nella scala EDSS ( Expanded Disability Status Scale ) alla fine dello studio (p < 0.05 in tutti i casi).
Infatti lo spessore delle fibre nervose della retina è risultato correlato con il volume della materia bianca (r = 0.291, p = 0.005) e quello della materia grigia (r = 0.239, p = 0.021 ).
La presenza di periflebite retinica è un fattore di rischio per la comparsa di nuove recidive entro i 2 anni successivi (odds ratio = 1.52, p = 0.02); i pazienti con periflebite retinica mostrano un maggior volume di lesioni evidenziate dal gadolinio (p = 0.003).
I dati dello studio hanno mostrato che l’atrofia dello strato delle fibre nervose della retina e la presenza di periflebite retinica sono associate con l’attività della malattia, suggerendo che la valutazione della retina può essere utilizzata come biomarcatore di attività della Sclerosi Multipla.
Fonte: Sepulcre J et al, Neurology 2007; 68: 1488-1494
News
Nuova scoperta sulle staminali il cervello si rigenera
3/3/2009
Cellule nelle meningi che si automantengono e differenziano
Il cervello ha una capacità rigenerativa più estesa di quanto
creduto fino ad oggi. È questo il risultato di una nuova scoperta scientifica
nel campo delle cellule staminali, elaborata nel laboratorio di ricerca
sulle cellule staminali dell’Università di Verona e coordinato da Mauro
Krampera, ricercatore della sezione di Ematologia diretta da Giovanni
Pizzolo, e nel laboratorio di ricerca della sezione di Farmacologia diretta
da Guido Fumagalli, grazie all’impegno di Francesco Bifari e Ilaria Decimo,
giovani promesse della ricerca dell’ateneo veronese.
I risultati della ricerca, condotta su un modello animale, sono
stati pubblicati in questi giorni sulla rivista «Journal of Cellular and
Molecular Medicine». La nuova scoperta ha portato all’individuazione delle
Leptomeningeal Stem Cells (LeSC), una nuova popolazione di cellule staminali
che si trovano in una porzione delle meningi che ricopre tutto il sistema
nervoso centrale dei mammiferi. Le LeSC sono una popolazione di cellule
immature dotate della capacità di auto-mantenersi e differenziarsi in
neuroni maturi eccitabili. Ciò dimostrerebbe che il cervello ha una capacità
rigenerativa più estesa di quanto creduto fino ad oggi.
Una scoperta che apre lo scenario a nuove prospettive terapeutiche
nel vasto ambito delle neuropatologie degenerative. Ipotesi che, se verificate
nella loro applicabilità, potrebbero essere impiegate nella lotta contro
le lesioni traumatiche del midollo spinale, il morbo di Parkinson, la
malattia di Alzheimer e per combattere la Sclerosi Multipla. «Questo lavoro
- dicono i ricercatori - rappresenta un importante punto di arrivo per
la ricerca veronese ma soprattutto un punto di partenza per le collaborazioni
internazionali già avviate i cui sviluppi si mostreranno più chiaramente
nei prossimi anni».
La ricerca e le sue implicazioni terapeutiche, realizzate anche
grazie alla collaborazione delle sezioni di Anatomia patologica e Neurologia
dell’Università di Verona, hanno già ricevuto un primo riconoscimento
internazionale durante il «5th International Stem Cell School in Regenerative
Medicine, Berlin-Rostock», tenutosi in Germania nell’ottobre del 2008.
News
Per chi fuma fin da giovane aumenta il rischio di manifestare la Sclerosi Multipla
02/02/09
Uno studio dell’Università di Baltimora sembra confermare la teoria secondo la quale l’esposizione precoce ad un fattore di rischio potrebbe causare la Sclerosi Multipla (SM).
Per la prima volta è stato eseguito uno studio per verificare la correlazione tra tabagismo precoce e Sclerosi Multipla (SM). I risultati mostrano come i soggetti che iniziano a fumare nei primi anni dell’adolescenza hanno un rischio di manifestare la SM tre volte superiore rispetto alla media.
La SM è caratterizzata da una disfunzione del sistema immunitario che provoca danni alla guaina mielinica, il rivestimento dei nervi, e si manifesta con astenia, problemi motori, perdita di coordinazione e molti altri sintomi che, tipicamente, compaiono tra i 20 e i 40 anni di età.
Già all’inizio degli anni ’80, gli scienziati avevano formulato l’ipotesi che la comparsa della SM fosse correlata all’esposizione ad un qualche fattore di rischio, anche se tale fattore non è poi stato identificato. Poiché i dati epidemiologici disponibili hanno indicato un’associazione fra fumo e SM, il dott. Joseph Finkelstein, della Scuola di Medicina dell’Università John Hopkins di Baltimora, con i suoi colleghi ha condotto uno studio che ha valutato il rischio di malattia nei soggetti esposti al fumo fin da giovanissimi.
Gli studiosi, nella loro analisi, sono partiti da un database di 30.092 persone, rappresentative dell’intera popolazione degli Stati Uniti, che hanno partecipato al censimento sanitario del 2002. Sono stati estrapolati 87 pazienti affetti da SM e 435 individui sani: in media, nei soggetti non affetti da SM solo il 19,2% ha iniziato a fumare prima dei 17 anni, mentre la percentuale sale al 32,6% tra i malati di SM. Dopo aver normalizzato il dato tenendo conto di età, sesso e altri possibili fattori confondenti, sia per quanto l’abitudine al fumo che per il rischio di manifestare la SM, i ricercatori hanno rilevato che i fumatori che hanno iniziato prima dei 17 anni hanno una probabilità 2.7 volte maggiore di manifestare la malattia, rispetto a chi non ha mai fumato. Nessuna differenza significativa, invece, per chi ha iniziato a fumare dopo i 17 anni.
Il dott. Finkelstein ha sottolineato che per le altre patologie comunemente associate al tabagismo, come quelle che colpiscono cuore e polmoni, il livello di rischio di manifestare la malattia è lo stesso, sia per chi ha iniziato a fumare da giovane, sia per chi ha iniziato in età adulta.
Quindi lo studio sembra confermare la teoria secondo la quale allo sviluppo della SM potrebbe contribuire l’esposizione precoce al fumo. Questo è un ulteriore dato a supporto dell’effetto deleterio del consumo di sigarette sull’organismo. Esso sicuramente danneggia vari organi e tessuti, favorisce le infiammazioni e influenza il sistema immunitario. Probabilmente, attraverso questo meccanismo, contribuire allo sviluppo della SM, ma ulteriori ricerche dovranno confermare la correlazione osservata nello studio di Finkelstein e colleghi. Resta il fatto che è importante tenere alta la guardia e contrastare in ogni modo la diffusione del tabagismo, soprattutto tra i giovani nell’età dello sviluppo.
Fonti: American Academy of Neurology, Reuters Health 02/02/09
Il Trial Clinico: se non è affascinante non lo pubblico
Fonte: Hopewell S. Cochrane Database of Systematic Reviews 2009, 1
Una nuova revisione sistematica contenuta
all’interno della Cochrane Library dimostra come gli
studi che presentano un beneficio del trattamento in studio o quelli con
risultati importanti o sorprendenti, quasi sicuramente verranno pubblicati
su riviste scientifiche, mentre gli studi negativi, altrettanto importanti,
spesso non raggiungono il traguardo della pubblicazione. Il team internazionale
di ricercatori ha prodotto una revisione sistematica analizzando tutte
le ricerche che esistono su questo argomento. Oltre a dimostrare che i
risultati negativi vengono ‘taciuti’ e quindi pubblicati più di rado,
hanno dimostrato che anche quando queste vengono pubblicate, ciò avviene
con un ritardo che va da 1 a 4 anni rispetto agli studi con esiti positivi.
Tuttavia, fa notare il capo ricercatore, Sally Hopewell del Centro Cochrane
Inglese, «Questa pubblicazione selettiva (publication bias) ha implicazioni
molto importanti: è impossibile fare una valutazione corretta dell’efficacia
e della sicurezza complessiva di un farmaco se non sono disponibili sia
i risultati positivi che quelli negativi degli studi clinici». Quanto
alle ragioni del fenomeno, sono le più diverse. Chi produce farmaci, per
esempio, spinge per la pubblicazione selettiva dei risultati favorevoli
ai propri prodotti. Un’altra spiegazione è fornita da Kay Dickerins del
Johns Hopkins Università di Baltimora, altro ricercatore di questo progetto:
«I risultati negativi non vengono pubblicati perché gli investigatori
ritengono che non siano sufficientemente interessanti. Una soluzione:
la registrazione di tutti i protocolli degli studi clinici prima del loro
inizio dovrebbe rendere più facile l’identificazione dei risultati mancanti».
Anche perché, sottolinea Andy Oxman, del Norwegian Knowledge Centre, le
decisioni sulla salute pubblica si devono basare su tutte le prove disponibili,
non solo sui risultati più eccitanti.
Nessuna prova che gli antiossidanti allunghino la vita
Fonte Bjelakovic
G et al. Antioxidant supplements for prevention of mortality in healthy
participants and patients with various diseases.
Molte persone
assumono antiossidanti sperando di incrementare le proprie aspettative di
vita. Purtroppo però, secondo una recente revisione Cochrane, questa idea
non è sostenuta da valide prove scientifiche. I risultati di oltre 67 studi
clinici randomizzati, cui hanno partecipato poco meno di un quarto di milione
di persone, smentiscono, infatti, gli effetti positivi degli antiossidanti.
"Non abbiamo trovato alcuna prova che gli antiossidanti riducano il rischio
di morte precoce nelle persone sane o con disturbi di salute", dice Goran
Bjelakovic, il ricercatore che ha condotto la revisione sistematica presso
la Copenhagen Trial Unit della Copenhagen University Hospital in Danimarca.
L'idea che gli antiossidanti possano aumentare le aspettative di vita è
nata dai risultati di alcuni studi condotti in laboratorio su umani e animali
ed è, poi, stata corroborata da alcuni studi clinici osservazionali. Tuttavia,
molti altri studi sono giunti a conclusioni ben diverse: mostrando, cioè, effetti neutri o addirittura dannosi di questi composti. Quando gli effetti
di un trattamento sono incerti occorre esaminare tutte le prove disponibili
in merito e tentare di trarre una conclusione. È quello che fanno i revisori
della Cochrane Collaboration: tramite delle strategie di ricerca bibliografica,
tentano di reperire tutti gli studi clinici randomizzati, pubblicati e non,
su una determinata problematica medica; poi, seguendo la rigorosa metodologia
Cochrane, giudicano la qualità metodologica degli studi ed escludono quelli
che non rispettano alcuni criteri prestabiliti; infine, estraggono i dati
rilevanti dagli studi e li combinano tra loro per ottenere una stima globale
sugli effetti del trattamento. Tutti questi passaggi sono dichiarati esplicitamente
nel protocollo della revisione per garantire la trasparenza del processo
ed evitare distorsioni. Goran Bjelakovic, come tutti i revisori Cochrane,
ha quindi seguito questo iter per compilare la revisione sugli antiossidanti
ed arrivare ad affermare che: "I nostri risultati mostrano che, negli studi
clinici, i gruppi di persone che ricevono beta carotene, vitamina A, e vitamina
E registrano tassi di mortalità aumentati. Non ci sono indicazioni che la
vitamina C o il selenio possano avere effetti positivi o negativi. Abbiamo,
quindi, bisogno di maggiori dati provenienti da studi clinici randomizzati
per chiarire quest'ultimo aspetto. Per ora, comunque, le conclusione che
si può trarre è che le evidenze disponibili non supportano l'uso di supplementi
antiossidanti nella popolazione sana o in pazienti con particolari disturbi".
sono molecole che rallentano o prevengono l'ossidazione di altre molecole
e, quindi, prevengono danni o la morte cellulare per stress ossidativo.
News dalla Mayo Clinic
Una ricerca della Mayo Clinic (uno dei
più importanti ospedali specializzati in SM negli Usa) ha ribaltato
l'approccio interventista consigliato da quasi tutti i neurologi, e
cioé di cominciare subito con le medicine ABC (interferoni o
copaxone) fin dal primo episodio. Adesso il consiglio è aspettare
e vedere che tipo di decorso ha il paziente. In fondo era l'atteggiamento
che tenevano i medici fino a una decina di anni fa. I neurologi della
Mayo Clinic sostengono che un considerevole numero di pazienti ha forme
benigne di SM che, pur continuando a presentarsi negli anni, non arrivano
mai a forme permanente di disabilità. In casi come questo, trattamenti
anche pesanti come l'Interferone, possono non essere necessari. L'Interferone
è costoso e ha molti effetti negativi, talvolta peggiori della
forma blanda di malattia che questi pazienti hanno e avranno negli anni
a venire. Se si può evitare, può valere la pena aspettare
e vedere che tipo di SM svilupperà il paziente.
Trattamento delle malattie autoimmuni: efficacia di un supplemento a base di Glucosamina in un modello murino
Ricercatori dell’University of California – Irvine, hanno scoperto che un supplemento dietetico a base di Glucosamina è in grado di sopprimere la risposta autoimmune osservata nella Sclerosi Multipla e nel diabete di tipo 1.
Negli studi su topi, Michael Demetrion e colleghi hanno trovato che la N-AcetilGlucosamina (GlcNAc) inibisce la crescita e la funzione delle cellule T anormali che attaccano tessuti specifici dell’organismo come la mielina cerebrale nella Sclerosi Multipla e le cellule pancreatiche producenti l’insulina nel diabete mellito di tipo 1.
Lo studio è stato pubblicato sul Journal of Biological Chemistry.
Nei modelli murini sia di Sclerosi Multipla che di diabete di tipo 1, i Ricercatori hanno osservato che l’N-AcetilGlucosamina previente l’iperattività e la risposta autoimmune delle cellule T.
La terapia con N-AcetilGlucosamina normalizza la funzione delle cellule T e previene lo sviluppo di paralisi nella Sclerosi Multipla e di iperglicemia nel diabete di tipo 1.
Un precedente studio clinico aveva riportato che 8 di 12 bambini con malattia infiammatoria intestinale autoimmune, resistenti al trattamento, erano migliorati in modo significativo dopo due anni di trattamento con N-AcetilGlucosamina.
Nessun significativo evento avverso era stato riportato.